MY SAN FRANCISCO MARATHON
RICORDI ED EMOZIONI DI UN'ESPERIENZA BELLISSIMA
Una maratona non comincia mai nel
momento dello start.
Chiunque si sia cimentato in
qualsiasi competizione sportiva lo sa perfettamente: la gara, in realtà,
costituisce soltanto l’ultimo atto di un lungo percorso che, in genere, prende
le mosse mesi prima.
Un percorso fatto di sacrificio,
di sudore, di forza d’animo, di momenti di esaltazione e di momenti di
scoramento; uno zaino che pian piano va riempiendosi di istanti, di sensazioni,
di esperienze… tutta una variegata mole di “cibi” di cui ci nutriremo il giorno
della maratona, mentre percorreremo quegli interminabili chilometri che ci
separano dal traguardo.
Il mio percorso di avvicinamento
alla Maratona di San Francisco – prima che con l’allenamento fisico – è
cominciato “mentalmente” il 18 gennaio del 2015, subito dopo l’arrivo della
Maratonina dei Tre Comuni a Castel S.Elia.
Una gara strana, su una distanza
anomala (22,8km) piena di salite ripide che, però, conclusi con un ottimo tempo
ed un rinnovato apprezzamento per i percorsi costellati da saliscendi.
Tornando a casa in macchina,
ascoltavo radio DeeJay e decisi di telefonare in diretta alla trasmissione in
onda con Linus e Stefano Baldini: in quell’occasione ebbi modo di parlare per
la prima volta del mio progetto di viaggio in California e dinanzi alle
perplessità degli speakers circa il periodo dell’anno in cui avrei dovuto
preparare la gara, nonché le difficoltà che questa avrebbe presentato visti i
dislivelli che caratterizzano la città di San Francisco, mi esaltai ancor di
più e – quel pomeriggio stesso – effettuai l’iscrizione on line sul sito
ufficiale.
Era gennaio, a marzo avrei corso
la Maratona di Roma, ma in testa avevo soltanto il 26 luglio del 2015!
Roma fu un vero successo per me.
Il mio miglior tempo in assoluto su 42k. Un 3:29 che versò ancor più benzina
sul fuoco dell’entusiasmo per il chiodo fisso che mi portavo in testa.
Ai primi di aprile preparai la
mia solita tabella di allenamento, la stampai come di consueto e la appesi al
muro: da quel momento, ogni allenamento cancellato con un segno di matita rossa
mi avvicinava alla realizzazione di un sogno.
Dopo poche settimane scoprii
quanta ragione avevano Linus e Baldini riguardo al caldo.
Preparare una maratona nei mesi
estivi è un’esperienza “terribile”! L’alta temperatura, l’elevato tasso di
umidità e le conseguenti condizioni di spossatezza dell’organismo costituiscono
un cocktail micidiale che si riesce a superare soltanto con una ferrea forza di
volontà e con un’alimentazione mirata che consenta di recuperare liquidi,
magari coadiuvata da qualche integratore specifico.
Tutte cose che sapevo
perfettamente ma che avevo, oggettivamente, sottovalutato in nome di
quell’incoscienza che – da sempre – contraddistingue la mia carriera
podistica!!
D’altro canto sono sempre stato
convinto del fatto che se ti fermi a riflettere su quello che significa
veramente allenarsi duramente tre mesi, con qualsiasi clima, a botte di
60/70/80 chilometri a settimana, per poi percorrere i 42 chilometri e 195 metri
per il “solo” gusto di alzare le braccia al cielo e indossare una medaglia… beh
se ci rifletti a mente fredda non puoi che darti del matto.
Se invece ti lasci prendere dal
sentimento, dalla magia di quei lunghi momenti di trance in cui ti trovi, in gara, a parlare con te stesso, a
guardarti negli occhi dal di dentro, se riesci a focalizzare quello che accade
all’anima, prima che al corpo, se smetti di essere semplicemente uno con le
scarpe da running per infilare i piedi nelle nuvole…. Allora tutto acquista una
luce differente. Tutto diventa l’unica opzione possibile. Dopo la prima
maratona non puoi che prepararne un’altra e poi un’altra ancora. Perché è solo
in quei momenti che ti avvicini all’esaltazione, quando sul traguardo tutto
diventa bianco e ti salgono le lacrime agli occhi.…
Ho esagerato??
Oh vabbè… si sa che noi
maratoneti siamo lievemente esaltati!!
Comunque, per tornare
all’allenamento, ovviamente nei mesi di maggio e, soprattutto di giugno e
luglio cominciai ad anticipare ancor di più l’orario di corsa mattutina, fino
ad arrivare ad uscire alle 5:30 per trovare un lieve refrigerio rispetto ai
trenta gradi della giornata.
Un altro aspetto da curare era il
fattore “pendenze”: San Francisco – lo sanno tutti – ha una conformazione
orografica particolarissima e quindi il percorso della maratona è costellato da
continui saliscendi, rispetto ai quali la preparazione doveva essere,
ovviamente, mirata.
Per questa ragione, durante i
fine settimana, cominciai a portare la famiglia al mare, a Terracina.
Terracina è uno dei miei posti
del cuore. Ci ho passato le estati da bambino ed ho continuato ad andarci da
adulto con moglie e figli. A ridosso delle spiagge c’è un promontorio dominato
dal Tempio di Giove Anxur a 227 metri s.l.d.m. dal quale si domina l’intera
costa del basso Lazio.
Da zero a + 227m in tre
chilometri e mezzo di curve: tanto per rendere l’idea delle pendenze. Un
percorso meraviglioso tra i profumi delle macchie di leccio, ginestra, mirto e
lentisco.
I lunghi domenicali svolti in
questa natura bellissima sono stati linfa per le mie gambe e per l’animo ed
hanno costituito un preludio “adeguato” alle meraviglie che avrei apprezzato
una volta raggiunta la California.
Com’è noto… quando ci si diverte
il tempo vola! E quindi tra un lungo e l’altro è arrivato velocemente il
momento di partire.
Sbrigate tutte le incombenze
burocratiche (visto che il viaggio l’ho organizzato “privatamente” su internet
senza il supporto di alcuna agenzia), preparati i bagagli avendo cura di
mettere le scarpe da gara nello zainetto “a mano” perché… non si sa mai se mi
perdono la valigia almeno le scarpe le ho con me…. Finalmente giovedì 23 luglio
siamo partiti da Roma.
Il viaggio aereo per raggiungere
San Francisco (con scalo a New York) è oggettivamente lunghissimo; il fuso
orario corre all’indietro di ben 9 ore e ci si ritrova, alla fine, come i
bambini, a scambiare il giorno con la notte.
Ma San Francisco è una città
meravigliosa.
Da quando corro ho sempre avuto
il gusto di unire il turismo alle gare e direi che, anche questa volta, la
scelta è risultata proprio azzeccata.
Viaggiare è già esaltante. Ma
preparare un viaggio insieme ad una maratona te lo fa vivere ancora più
intensamente. Raggiungi la destinazione al termine di un iter di avvicinamento
sia fisico che mentale e, una volta arrivato, vivi il doppio le sensazioni che
ti danno quelle strade.
Quei paesaggi te li sei
immaginati talmente tante volte, li hai studiati, li hai desiderati e,
finalmente ci sei arrivato, non soltanto spendendo dei soldi, ma “sudandoteli”
nel vero senso della parola.
Il venerdì ed il sabato li
abbiamo dedicati al turismo, con un occhio attento a non stancarmi troppo e
l’altro perso nelle meraviglie che la città offre sotto qualsiasi punto di
vista.
Lombard Street |
Il clima, come tutti sanno, è
molto fresco e ventilato e quindi, venendo dagli afosi 35 gradi di Roma,
abbiamo apprezzato molto la necessità di dover indossare la felpa di giorno e
addirittura il kway di sera visti i 15/16 gradi presenti al calar del sole.
Due giorni, inoltre, sono bastati
per terrorizzarmi, dandomi finalmente l’idea concreta di ciò che rappresentano
le salite più famose del mondo, anche se il percorso ufficiale, per fortuna, è
stato disegnato in modo da evitare quelle con pendenze da “mulo alpino”!!
Il ritiro del kit con pettorale
(bib number), maglia tecnica e sacca ufficiale (una bustona di plastica
trasparente che, oggettivamente, lasciava molto a desiderare in confronto allo
zaino di gran classe che regala la maratona di Roma) è stato sugellato dalle
classiche foto di rito, e da un bel giro tra i numerosi stand commerciali dove
ho avuto modo di vedere dal vivo le famose e stranissime scarpe Hoka One One,
le particolarissime Newton, col loro tassello in rilievo sotto la suola
anteriore e una montagna di integratori energetici i cui “assaggi” gratuiti
avrebbero sfamato un intero villaggio africano.
Il padiglione del Marathon Expo |
integratori alimentari |
altri integratori |
Insomma, in men che non si dica,
era arrivata la vigilia della gara.
La classica cena a base di pasta
per il carico di carboidrati è stata abbastanza complicata perché il ristorante
che avevo individuato inizialmente era troppo lontano dall’albergo e, dopo una
giornata da turista, non me la sentivo di raggiungerlo.
A quel punto ne ho cercato uno
nei paraggi e tra le decine di ristoranti italiani, gestiti da italianissimi e
pieni di maratoneti di tutto il mondo (ma quasi nessuno italiano) ho trovato
posto in un localino chiamato “Pazzia” grazie alla gentilezza ed alla
disponibilità del simpaticissimo proprietario Massimo, un toscano verace
trapiantato a San Francisco.
Al letto presto, perché lo start
della mia wave era previsto alle 5:30… ho dormito davvero pochino, tanta era
l’ansia e l’emozione.
A notte fonda, verso le 4, ho
cominciato a prepararmi ed, esauriti i piccoli e segretissimi riti mattutini
del pre gara, mi sono avviato a piedi verso l’Embarcadero, punto di partenza
della corsa.
Ovviamente era buio pesto e
ricorderò sempre l’effetto delle luci dei lampioni sui marciapiedi lastricati
con un composto cementizio in cui sono inseriti milioni di microcristalli… lo scintillio
mi rapiva mentre mi avvicinavo alla partenza e superavo i numerosi homeless
addormentati sulle griglie di sfiato dell’aria calda.
l'Embarcadero la mattina della partenza |
pronto per entrare in griglia |
Lasciata la borsa nel truck UPS
corrispondente al mio pettorale, mi sono infilato nella griglia relativa alla
terza wave, ho indossato la mia elegantissima busta della spazzatura
condominiale antivento (destando non poca ammirazione nei runners autoctoni,
evidentemente poco avvezzi a tali capi tecnici d’avanguardia) ed ho atteso
pazientemente.
Quello è uno dei momenti più
intensi che si possano vivere. Sei in mezzo a migliaia di persone che, bene o
male, hanno in comune con te mesi e mesi di allenamenti. Eppure sei solo. Io
tendo a concentrarmi e ad isolarmi nel mio sacco nero della spazzatura. Tengo
le braccia conserte al petto e ripenso a tutto quello che mi ha portato a
quell’istante. Ciondolo un poco e accenno a qualche esercizio di stretching.
Ma, soprattutto, preparo la mente all’incontro con me stesso che, di lì a due o
tre ore, immancabilmente avverrà.
Una chiacchiera veloce con i
vicini più prossimi, frasi di circostanza. Un lampo all’improvviso quando
realizzo di aver dimenticato anche stavolta di prendere l’imodium… vabbè il
problema eventualmente lo affronteremo a tempo debito!
Finalmente l’onda numero due
parte e, quindi, ci fanno avvicinare al nastro di partenza.
Pochi istanti ancora, tutti col
dito sul GPS debitamente collegato al satellite, un ultimo controllo al chip
sulla scarpa… ci siamo. Three, two, one… go go go go go!!!!!
Si parte
Alle primissime ore dell’alba si
percorre in assoluta allegria il tratto di strada che costeggia il mare e dal
quale si dipartono i cosiddetti PIER, dal n°1, al 33 dove partono i traghetti
per Alcatraz, fino al famosissimo Pier 39, centro di multicolori attrazioni,
ristoranti e negozietti, accanto al quale sonnecchiano i leoni marini ammassati
l’uno sull’altro.
prime miglia |
Il Fishermans Wharf si supera di
slancio e ci si ritrova davanti al Ghirardelli Square, la fabbrica di
cioccolato con la sua iconica insegna luminosa.
A quel punto hai percorso poco
più di due miglia (sulle 26 totali) e hai sostanzialmente finito di scherzare.
Ti trovi davanti la prima salita
che attraverso Fort Mason, con uno strappo improvviso, ti porterà alla zona
denominata Presidio of San Francisco, un grande parco verde, antica zona
militare, dal quale si diparte il Meraviglioso Golden Gate: uno dei ponti più
belli del mondo.
Siamo al 5° miglio, da qui in
avanti non ci sarà più nemmeno un tratto pianeggiante, per attraversare il
ponte e tornare indietro (si percorre due volte, all’andata ed al ritorno)
saranno necessarie altre 5 miglia… e lo spettacolo è davvero da togliere il
fiato.
La luce comincia ad essere
sufficiente per godere di un poco di panorama ma, come di consueto a quest’ora,
la nebbia ammanta una parte del ponte la cui vetta scompare gradualmente man mano
che si alza lo sguardo.
È come se il ponte unisse la
strada alle nuvole… un’esperienza indescrivibile.
il Golden Gate Bridge |
Una volta terminato il “viaggio
di ritorno” dal Vista Point di Sausalito, dopo aver salutato gli altri runners
che affrontavano accanto a me, ma in senso contrario, la prima parte del Golden
Gate ed aver notato… con una certa soddisfazione, che i pacers del 4:40 erano
parecchio distanti, mi sono ritrovato nuovamente nel Presidio ed ho affrontato
le nuove salite che, attraversando il Richmond District si inerpicano fino al
Golden Gate Park.
Si tratta di un enorme polmone
verde al centro della città, una sorta di Central Park di NY ma più grande.
Misura più di 4 chilometri quadrati e racchiude alcuni degli scorci più
suggestivi della città.
Tutta questa natura e questo
freddo, a quel punto, avevano stimolato a dovere il mio organismo ma, per
fortuna, le necessità “organolettiche” che si presentavano impellenti erano di
natura liquida e non solida… l’imodium non era servito fortunatamente: bastava
il tronco di un bell’albero (visto che i bagni chimici erano lontanissimi dal
percorso ed invece i cespugli erano così “invitantemente” prossimi...)
Espletata la formalità in modo
incivile, ho proseguito lungo i viali alberati del parco fino a spuntare nel
quartiere Haight Ashbury, vicino al famigerato quartiere Castro dalle bandiere
arcobaleno.
Qui, tra il 20° e il 21° miglio,
quindi tra il 31° e il 33° chilometro, ho cominciato come al solito a parlare
ad alta voce.
Un dialogo fitto, fatto di
insulti, esortazioni, domande, risposte, parolacce… insomma tutto il
campionario di piacevolezze che preludono all’incontro con quel personaggio da
romanzo che sono io, dentro di me.
corri... che pensavi fosse una passeggiata?? |
È intorno al 33° chilometro che,
in genere, le forze fisiche tendono ad esaurirsi – o almeno così pare – e si va
avanti di testa e di cuore (e dell’ennesima bustina di magnesio e potassio,
caffeina, carboidrati o qualsiasi cosa ci ficchino dentro a quelle melasse
orribili).
Di questa parte del percorso,
lungo la 16th street e fino ai capannoni della zona portuale del Portrero
Point, ricordo chiaramente la bruttezza delle abitazioni e l’assurdo
susseguirsi di salite e discese, come sulle montagne russe.
Guardavo il GPS, mi diceva che
ero al 38° chilometro. Cazzo ne mancano solo quattro. Possibile che ci siano
ancora salite? Ma l’arrivo non era di nuovo sul lungomare? Come cazzo è
possibile avere un lungomare in salita? Un’altra curva… un’altra salita. Urlo
“…..e vaffanculooooo!!!” qualcuno si volta a guardarmi ma non so se ha capito o
se lo prende per un incitamento.
Finalmente vedo il mare.
Sbuca dietro uno stabile grigio e
in lontananza si staglia il San Francisco – Oakland Bay Bridge: un ponte
altrettanto bello ma meno famoso del Golden Gate e bianco come il latte.
Lo vedo e mi pare troppo lontano
rispetto alla mappa che avevo in testa. Vedo, poco prima, l’enorme At&T
Park, lo stadio di baseball della locale squadra dei Giants.
Tutto mi sembra troppo lontano
rispetto all’idea che avevo del traguardo.
Tutto troppo lontano. E io sono
stanco. Ma almeno le salite sono finite.
Mi concentro, stavo perdendo la
concentrazione ed invece devo stringere i denti ancora per un paio di
chilometri.
Finalmente vedo davanti a me
l’enorme arco con la freccia rossa conficcata nel terreno del Cupid's Span… è
il segnale che il traguardo è raggiunto.
Come al solito, non capisco più
niente… vedo l’impalcatura della finish line avvicinarsi piano e porto la mano
sul cuore a sentire il battito di chi, ancora una volta, mi ha fatto superare
il limite, mi ha accompagnato per mesi, chilometri, ore, miglia, lacrime, albe
e tramonti… pompando fiducia e forza… infondendo nelle mie vene il sangue denso
dell’esaltazione, trasformando una briciola in un gigante.
E d’un tratto è tutto bianco. Ho
gli occhi pieni di lacrime, la gola strozzata dai singhiozzi. Una medaglia al
collo e un telo luccicante addosso.
Mi giro e vedo la mia famiglia
che mi saluta e mi fotografa gridando! Rispondo in preda all’euforia e li
ringrazio sbracciandomi. Sono orgogliosi di me e mi comunicano il tempo finale:
tre ore e trentasei minuti... Incredibile alla vigilia.
Guardo le mie scarpe e la
medaglia e rido. Sono felice e distrutto. È l’estasi: se ognuno potesse provare
la sensazione dell’arrivo di una maratona non esisterebbe più la domanda “ma
chi te lo fa fare”!
La medaglia al collo sarebbe
rimasta almeno per un paio di giorni ancora… e gli americani ci fanno caso e si
congratulano e ti chiedono.
Le emozioni fortissime e le diapositive
meravigliose che San Francisco mi ha regalato, invece, rimarranno per sempre
impresse nella mia memoria.
Complimenti come sempre non solo x la maratona (Davvero di quelle toste) ma anche e soprattutto x il racconto appassionante!
RispondiEliminaGrazie mille! Detto da te poi..... :-)
EliminaTutto fantastico, io una cosa sola non ho capito: ma chi te lo fa fare?!
RispondiElimina;)
Un racconto emozionante, vissuto con la giusta esaltazione che solo chi corre può comprendere a pieno, le fatiche che affrontiamo in ogni gara sono poca cosa a confronto a quella che tu hai fatto, l'esaltazione e la tua giusta ricompensa in una manifestazione magnifica come la persone che sei, complimenti.
RispondiElimina(Francesco Trantaso)
Francesco grazie!!!!!
EliminaGiampaolo mi hai fatto rivivere l'emozione della Maratona e nel finale del tuo racconto ho pianto anche io :-) BRAVOOOOOOOOOO
RispondiEliminaMino Perugia
Grazie Mino!!! Un abbraccio e a presto!!
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